Vediamo innanzitutto il caso, così come lo si può desumere dal testo di Cass. 9331/2024.
Due persone unite da vincolo di matrimonio stipulano un contratto di conto corrente bancario con firma disgiunta.
A latere si aggiunge un contratto per servizi di investimento.
I titoli acquistati, però, vanno in minusvalenza. I coniugi promuovono quindi un giudizio nei confronti dell’istituto per far valere la nullità del contratto. Sostengono, in particolare che il contratto quadro sarebbe affetto da nullità mancanza di forma scritta e che il vizio di forma travolgerebbe anche i singoli ordini di acquisto. La firma di uno dei due, in particolare, sarebbe falsa.
Le conseguenze? La nullità degli ordini comporterebbe l’obbligo per la banca di retrocedere il capitale originariamente investito, mentre le minusvalenze rimarrebbero in capo alla Banca.
Nelle fasi di merito si accerta che, effettivamente, la firma di uno dei due correntisti non è autentica, ma gli esiti non sono quelli auspicati dai due investitori.

Di diverso avviso la suprema Corte.
La cassazione riconosce le ragioni degli investitori, in quanto la possibilità di disporre con firma disgiunta vale solo per le operazioni di conto corrente, non per i servizi di investimento.
Ecco il principio di diritto enunciato: “in tema di intermediazione finanziaria, il contratto quadro sottoscritto da uno solo dei due investitori è nullo per difetto di forma, con conseguente travolgimento degli ordini di acquisto nei confronti di entrambi…..”.
Perplessità? Personalmente si: se uno dei due contitolari può operare sul conto con firma disgiunta, perché il successivo contratto di impiego delle somme prelevate dovrebbe necessitare della firma di entrambi i contitolari?