Nel 2016/2017 patrocinai, con un collega, una causa di divorzio che vedeva contrapposta la cliente all’ex marito. Nella vicenda, molto impegnativa come spesso lo sono quelle di diritto di famiglia, mi trovai a svolgere un ruolo che andava ben oltre quello della difesa tecnica propria del legale… si discuteva dell’affidamento/collocazione dei figli. Poco studio ma molto impegno, quindi.

In primo grado l’esito non fu favorevole, tant’è che con il collega decidemmo di proporre appello. Ciò nella consapevolezza che la signora non aveva la possibilità di pagare perché l’unica sua fonte di reddito era l’assegno versato dall’ex marito.

L’appello e la discussione caddero in un momento molto difficile per me, ma decisi comunque, vista la delicatezza della questione, di non delegare e di discutere personalmente la causa davanti all corte d’appello. Durante la discussione notai, con disappunto, che il pubblico ministero reclinava il capo mentre parlava la collega di controparte, come se cercasse di resistere ad un attacco di sonno. Giunto il momento in cui dovevo prendere parola io, mi voltai verso la signora, palesemente perplessa visto l’andamento e l’attenzione dell’uditorio, per tranquillizzarla.

Ma neppure io ero tranquillo…

Nella discussione appositamente modulai il tono della voce per attirare l’attenzione del P. M.: confesso che non ci riuscii. Mi chiesi quindi cosa ci facessi in quel posto, vista la mia condizione personale e vista l’attenzione, almeno quella apparente, di parte dei magistrati. Il P.M. diede segni di attenzione solo al momento di esporre le conclusioni: “chiedo la conferma della sentenza”, disse.

Mi sarebbe piaciuto chiedere le motivazioni della richiesta, visto che non aveva udito una parola di quanto esposto dalle difese, della collega di controparte e mia. Comunque la decisione fu favorevole e la cliente rimase soddisfatta.

La incontrammo per l’ultima volta nel 2017, illustrando i contenuti della decisione ed esponendo i conteggi di quanto dovuto da tariffa forense, pur sapendo che sarebbe stato ulteriore tempo perso. Eravamo infatti consapevoli che la signora non aveva la possibilità di pagare. Da quel momento non la sentimmo e nemmeno la cercammo più.

Nel luglio di quest’anno ricevetti una sua telefonata: “avvocato, ci possiamo vedere?”. La incontrammo. La signora si sedette, rispetto a noi, dal lato opposto del tavolo riunioni.

Ci sedemmo anche noi e rimanemmo in attesa di conoscere quanto voleva dirci. “…innanzitutto grazie per avermi aiutato e per avermi affiancato. Poi di nuovo tre volte grazie per aver pazientato tutto questo tempo senza chiedermi o sollecitarmi nulla” disse. “Sono venuta per regolare il sospeso che ho con voi”.

Incrociai lo sguardo del collega e capii che eravamo sulla stessa linea. Presi il foglio con i vecchi conteggi e lo strappai.

“Visto il suo comportamento e, consapevoli delle sue difficoltà, invece di quanto in tariffa possiamo sistemarci con xxxx”, dissi.

La reazione della signora fu ancora più sorprendente.

Ella infatti allungò un braccio verso di me ed un altro verso il collega, cercando le nostre mani…

Sul suo volto segni di commozione, commozione che anche noi trattenemmo a stento: raramente ci capita di percepire una gratitudine così profonda e sincera.

Pensai quindi al mio particolare momento vissuto, alla discussione, al disinteresse del P.M. e quindi pensai: “no Robi, non è stato tutto inutile”.

Il giorno successivo la signora tenne fede alla promessa.